lunedì 30 aprile 2007

Il Test di Thumbria

Navigando qua e là sono finito sul sito di Thumbria, il quale propone, tra le varie cose, anche un test particolare. Il test verifica se la persona che risponde ai quesiti ragiona per schemi ideologici prefissati o pensa con la sua testa. Ho totalizzato 42 punti e sono risultato privo di paraocchi e della cosa mi compiaccio, però visto che dandosi sempre ragione a vicenda non si progredisce molto, cerco il pelo nell’uovo e procedo con obiezioni (alcune serie altre semiserie) su alcune domande.
Domanda 17 è giusto permettere azioni che conducono all’uccisione di un essere umano?
A me è venuta subito in mente la legge sulla legittima difesa ed ho risposto sì. Ma ero un po’ dubbioso, poi riflettendoci bene ho pensato che non sono neanche contro la pena di morte, anche se non la introdurrei mai in Italia, ed allora ho cliccato sì più convinto. Non so quale sia la domanda di incrocio nel test, ma temo che non facesse riferimento ai temi cui ho pensato io.
Domanda 31 esiste una Verità o solo punti di vista?
Per me esistono solo punti di vista, ma più che altro per natura tendo ad essere inevitabilmente pratico. Ad esempio banalizzando al massimo: per me la Civiltà Occidentale è meglio del modello di società che teorizza Bin Laden, ma non c’è bisogno che dimostri a me stesso ed al mondo che questa superiorità è una Verità assoluta. Per me lo è, e questo è il mio punto di vista. E se Bin Laden dal suo punto di vista pensa il contrario e mi vuole sgozzare, può darsi che abbia ragione, comunque cerco di sparargli in mezzo agli occhi.
Domanda 35 bisogna essere cattolici adulti?
Bello il richiamo a questa frase boriosa di Prodi, però mi mette in difficoltà, perché sono un po’ di anni che non pratico più il cattolicesimo, quindi francamente ogni cattolico deciderà se vuole essere adulto oppure no, non so quindi se sia vero o falso, più che altro non mi riguarda tanto. A rigor di logica però è falso, perché se sei cattolico devi seguire quello che dice il capo della Chiesa Cattolica, altrimenti che cattolico sei? Un cattolico fai da te? E’ anche vero però che per questa categoria hanno introdotto anni fa il sacramento della Confessione. Quindi potrebbe anche essere vero.
Domanda 39 la Chiesa ha una visione triste?
Qui voglio essere serio: la fede cattolica, e comunque quella cristiana in generale, è tutto fuorché triste. Il messaggio di Cristo è un messaggio di resurrezione e di vita eterna, una vita eterna ultraterrena che si consegue cercando di costruire un mondo terreno migliore. Semmai l’ateismo è triste, cosa c‘è di più triste che pensare che dopo la morte c’è il nulla.
Io non ho mai pensato che fosse triste né quando la praticavo né ora che sono su posizioni agnostiche. Detto questo torno faceto con una battuta: forse mi sembrava un po’ triste quando durante i campeggi parrocchiali le camerate delle ragazze erano piantonate da un insuperabile servizio d’ordine. Ma si sa che le cose ottenute facilmente danno poca soddisfazione.
Domanda 40 l’Europa secolarizzata ha più suicidi del resto del mondo?
Non c’è dubbio che la fede aiuta a vivere, però per correttezza di analisi bisognerebbe conoscere le opinioni religiose dei suicidi, ma questo è un dato di cui non credo si disponga.
Io credo che i suicidi, come la droga, come altri modi di autodistruggersi, derivino in Europa da una mancanza nei ragazzi di disciplina, di autorità, di carattere, di spina dorsale.
Domanda 44 rispetto della persona enunciato 2000 anni fa
Con tutti i pride che ci sono in giro un po’ di Cristian Pride è doveroso, quindi per come è formulata la domanda la risposta è sì. Del resto se il messaggio evangelico ha avuto questa diffusione, qualcosa che tocca il cuore delle persone ci deve pur essere. Però non tutti gli uomini vissuti prima sono stati dei bruti che si abbandonavano all’istinto di uccidere. Inoltre per secoli dopo che il cristianesimo era stato conosciuto, introdotto e magari imposto, non è che si notasse alcuna differenza con l’Avanti Cristo.

domenica 29 aprile 2007

Telecom, capitalisti e lacrime di coccodrillo

La vicenda Telecom sembra volgere al termine: prenderà il comando Telefonica, con l’appoggio di un po’ di banche. La definirei un soluzione salomonica: all’Enel l’energia elettrica spagnola, agli spagnoli i telefoni italiani, così ancora una volta i fatti smentiscono le parole. Le parole dei politici naturalmente, infatti sugli organi di informazione abbiamo avuto una processione ininterrotta e replicata alla nausea di politici, Capo del Governo in primis, che si affannavano a dire che la politica non c’entra, deve starne fuori, salvo poi arrivare proprio alla soluzione più gradita a Prodi e Zapatero. Pazienza, non sono così idealista da pensare che chi ha il potere si astenga dall’esercitarlo, ma gradirei qualche volta ascoltare da queste persone frasi coerenti con i comportamenti, così tanto per non essere preso in giro.
Ma l’aspetto più paradossale è un altro e riguarda la domanda posta, come una litania, per settimane: i capitalisti italiani dove sono? Tronchetti Provera agita lo spettro della vendita a soci esteri della sua quota di Olimpia, la società che controlla il pacchetto di maggioranza in Telecom Italia, ed ecco che i politici italiani hanno cominciato a versare fiumi di lacrime, imprecando contro il capitalismo nostrano, affetto da nanismo ed inadeguato a rilevare le azioni in vendita.
Abbiamo addirittura sentito il Presidente della Camera, Fausto Bertinotti, esprimersi un questo senso. Ora cerchiamo di pensare un attimo con la nostra testa e vediamo se la logica ci può aiutare. In Italia c’è una quantità di piccole e medie imprese di successo impressionante, a volte soffrono, ma complessivamente mostrano notevole vitalità. Per quanto riguarda i grandi gruppi siamo invece ridotti al minimo, comunque assolutamente al di sotto dei paesi economicamente paragonabili al nostro. Le ragioni saranno sicuramente molte ed una parte di queste sono di tipo culturale, legate alla mentalità ed alle modalità operative degli imprenditori italiani, ma in definitiva è l’ambiente che dà forma agli organismi, se un biologo sbarca in un continente sconosciuto, dal tipo di ambiente può già dire se incontrerà animali grandi o piccoli. Quindi è evidente che se ci sono meno grandi imprese che negli altri paesi vuol dire che da noi è più difficile vivere o sopravvivere per una grande impresa. Questa mancanza è strutturalmente il punto più debole della nostra economia, perché la grande impresa mette in moto alcuni meccanismi che sono, in Italia, deficitari: ha le risorse per la ricerca e sviluppo; crea occupazione di qualità, perché ha bisogno di quadri e dirigenti; consente una maggiore specializzazione e produttività del lavoro.
Naturalmente le grandi imprese fanno anche paura, perché con le risorse immense di cui dispongono possono distorcere la vita democratica, scavalcare o controllare le istituzioni a scapito dei cittadini. Questo aspetto è sentito in modo particolare negli USA, dove si concentra la maggior parte delle imprese di più grandi del mondo. Il dibattito tra chi sostiene le grandi corporation oppure chi sostiene lo small business è talmente centrale che è sufficiente fare un qualunque test di orientamento elettorale su internet, per vedere che un grande numero di domande è incentrato su questo tema. In Italia il tema è stato talvolta affrontato in questi termini quando si è constatato un effetto negativo dell’apertura di grandi supermercati, cioè l’estinzione dei piccoli negozi al dettaglio. Al di là che sia un bene o un male non avere grandi imprese, io faccio notare un’assurdità che mi sembra non sia stata rilevata: le grandi imprese in Italia non ci sono perché l’ambiente non ne permette l’esistenza, coloro che ne lamentano l’assenza, cioè i politici, sono i responsabili primi. Esse sono penalizzate dal punto di vista normativo e, come abbiamo visto con Telecom Italia, subiscono pesantemente l’ingerenza della politica. Lo Statuto dei Lavoratori incoraggia il nanismo aziendale; fiscalmente si drenano risorse, attraverso ad esempio l’Ires e l’Irap, dalle aziende che fanno utili e si ridistribuiscono, come aiuti di Stato, a quelle in crisi, ribaltando la distruzione creatrice, facendola diventare agonia permanente. A questi coccodrilli interessa occupare, in un modo o nell’altro, tutti gli spazi ed i posti disponibili; piangono lacrime per gli imprenditori che non ci sono, ma sono lacrime false, gli imprenditori se li sono appena mangiati, quelli che provano ad arrivare li fanno scappare a gambe levate.

mercoledì 25 aprile 2007

Oggi è il 25 aprile

Oggi è il 25 aprile e vorrei ricordare un paese dove ci fu una dittatura, caduta sotto i colpi degli eserciti anglo-americani. Un paese occupato da forze straniere che insieme ai nostalgici di quella dittatura cercano di impedire l’avanzata agli anglo-americani. Queste forze straniere vogliono imporre un modello di società che nega i più elementari diritti, vogliono sterminare tutti gli ebrei e con loro tutti quelli che dissentono, conducono la loro battaglia compiendo eccidi, rappresaglie e stragi, compiendo esecuzioni dei prigionieri, militari e civili. C’è chi appoggia gli americani ed il modello che cercano di imporre, combattendo assieme a loro, c’è invece chi giustifica e appoggia chi si oppone agli americani. Il paese di cui sto parlando è l’Iraq. Le forze straniere che occupano ancora zone del paese sono le brigate di siriani, arabi, egiziani, giordani che sotto le insegne di Al-Qaeda lottano contro gli USA.
Oggi è il 25 aprile e le stesse persone che ieri tuonavano contro l’uso della forza americana in Iraq, pronunceranno discorsi nelle piazze italiane circa la nostra libertà conquistata con le armi e con il sangue.
Si dirà che è un’altra storia, un’altra guerra e questo è vero, ma è vero anche che allora non c’erano molte alternative: o si finiva sotto l’influenza americana o sotto quella tedesca, o magari sotto quella sovietica, come voleva qualcuno. Altre opzioni non erano disponibili, anche oggi in Iraq le opzioni sono limitate: protettorato americano, iraniano o califfato. O qualcuno pensa che a breve sia possibile edificare un Iraq federale, neutrale, democratico, diciamo una specie di Confederazione Elvetica. Io ne dubito.
Oggi è il 25 aprile e inevitabilmente in Italia si guarda indietro, ma quello che si vede non potrà mai essere chiaro, limpido, incontestabile, perché in una guerra civile si mescolano milioni di storie , milioni di persone, milioni di atti, a volte eroici, a volte meschini, trovi opportunismo, ignoranza, crudeltà, necessità materiali e grandi ideali, e li trovi da tutte le parti. Valutare con obiettività e distacco è difficile, per chi ha avuto i morti in famiglia è impossibile.
Oggi è il 25 aprile ed allora cito le parole di una partigiana: “Avevo quattordici anni. Quando l' anno dopo mi congedarono dall' Esercito Italiano-Corpo Volontari della Libertà, mi sentii così fiera. Gesummaria, ero stata un soldato italiano! E quando venni informata che col congedo mi spettavano 14.540 lire, non sapevo se accettarle o no. Mi pareva ingiusto accettarle per aver fatto il mio dovere verso la Patria. Poi le accettai. In casa eravamo tutti senza scarpe. E con quei soldi ci comprai le scarpe per me e per le mie sorelline. Naturalmente la mia patria, la mia Italia, non è l' Italia d' oggi. L' Italia godereccia, furbetta, volgare degli italiani che pensano solo ad andare in pensione prima dei cinquant' anni e che si appassionano solo per le vacanze all' estero o le partite di calcio. L' Italia cattiva, stupida, vigliacca, delle piccole iene che pur di stringere la mano a un divo o una diva di Hollywood venderebbero la figlia a un bordello di Beirut, ma se i kamikaze di Usama Bin Laden riducono migliaia di newyorchesi a una montagna di cenere, che sembra caffè macinato, sghignazzan contenti bene-agli-americani-gli-sta-bene. L' Italia squallida, imbelle, senz' anima, dei partiti presuntuosi e incapaci, che non sanno né vincere né perdere, però sanno come incollare i grassi posteriori dei loro rappresentanti alla poltroncina di deputato o di ministro o di sindaco. L' Italia ancora mussolinesca dei fascisti neri e rossi che ti inducono a ricordare la terribile battuta di Ennio Flaiano: «In Italia i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti».
“No, no: la mia Italia è un' Italia ideale. È l' Italia che sognavo da ragazzina, quando fui congedata dall' Esercito Italiano-Corpo Volontari della Libertà, ed ero piena di illusioni. Un' Italia seria, intelligente, dignitosa, coraggiosa, quindi meritevole di rispetto. E quest' Italia, un' Italia che c' è anche se viene zittita o irrisa o insultata, guai a chi me la tocca. Guai a chi me la ruba, guai a chi me la invade. Perché, che a invaderla siano i francesi di Napoleone o gli austriaci di Francesco Giuseppe o i tedeschi di Hitler o i compari di Usama Bin Laden, per me è lo stesso. Che per invaderla usino i cannoni o i gommoni, idem.”
Si tratta ovviamente di due passaggi tratti da “La rabbia e l’orgoglio” di Oriana Fallaci.
Oggi è il 25 aprile e per concludere dirò quello che penso io: la guerra civile italiana è finita, e credo che non vorrebbero ricombatterla nemmeno quelli che ci sono morti, la Seconda Guerra Mondiale è finita e penso che per l’Italia la vittoria americana sia stato l’esito migliore oltre che inevitabile, penso che la fine di ogni guerra imponga a chi sopravvive di costruire un paese migliore. Oggi guardo indietro anch’io, domani però ricomincio a guardare avanti e fare quello che posso per fare in modo che l’Italia di oggi sia migliore di quella che l’ha preceduta.

domenica 22 aprile 2007

No alle armi? Sì alle armi? Un pò sì un pò no. Quello che i giornali non dicono.

Sono giorni di congressi ed i politici si scatenano, riversano nei microfoni tutta la loro abilità oratoria, evocano tutti i buoni propositi possibili ed immaginabili. Gli obiettivi sono ambiziosi ma chiari: sviluppo economico, equità, pace, onestà, e via di questo passo. Peccato che per il 99% dei progetti ci vogliono soldi e soldi non ce ne sono, se li dai a qualcuno vuol dire che li hai presi a qualcun altro, ma di questo meglio non parlarne ai congressi, meglio lasciare spazio ai valori. Che bello il paese dopo le riforme: finalmente si darà spazio ai meritevoli, si premierà il senso civico, il cittadino sarà al centro dei loro sforzi, è finita con i furbi che evadono, che corrompono, è finita con il paese dei raccomandati, dei nepotismi, dei furbetti. Ma si sa la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni e con il materiale avanzato hanno lastricato anche quella per il Parlamento. Così di cosa si occupano i nostri valenti rappresentatati per alleviare i problemi del paese? Un progetto di legge per consentire agli obiettori di coscienza di revocare la loro obiezione. A prescindere se fosse giusto o no il servizio militare, a prescindere che si può sempre cambiare idea, che messaggio si dà al paese? Che, se ti fa comodo per evitare il servizio militare, dici che sei contrario alle armi, poi quando il servizio non c’è più e le restrizioni che conseguono ti limitano, allora dichiari il contrario.
Per ora l’Italia dell’avvenire assomiglia molto a quella del passato, soprattutto nel peggio.

giovedì 19 aprile 2007

La riforma della Costituzione

La riforma della Costituzione torna periodicamente nell’agenda politica, ma di solito, ormai, è uno stanco diversivo. Durante i giorni di crisi del governo Prodi è balenata, come in ogni crisi di governo, l’eterna ipotesi delle larghe intese per fare le riforme. Si dovesse ripresentare un’altra crisi, certamente pur di evitare le elezioni e pur di allontanare la sconfitta, qualche pezzo dell’Unione offrirà questa prospettiva, la mia opinione è che l’opposizione dovrebbe respingere questa tentazione, se c’è qualche intenzione di riforma si può verificare subito. Se non si riesce a trovare un punto di accordo adesso, non c’è nessuna ragione per cui dovrebbe essere possibile dopo.
Ho fatto questa premessa proprio perché credo nella necessità delle riforme e penso che tale argomento non vada usato a fini tattici ma come obiettivo strategico.
La riforma costituzionale varata dal Governo Berlusconi si muoveva nella direzione giusta: superamento del bicameralismo perfetto, riduzione del numero di parlamentari, elezione diretta del Presidente del Consiglio, maggiore indipendenza nell’azione di governo rispetto al Parlamento, federalismo. Si può discutere della forma in cui questi indirizzi venivano attuati, ma la sostanza dei provvedimenti è a mio parere indiscutibilmente corretta.
La sconfitta referendaria non deve farci rinunciare a perseguire quelle riforme, a mio parere necessarie, che possono darci istituzioni più stabili, più efficienti, più democratiche, più forti.
Presidenzialismo, un esecutivo separato ed indipendente dalla funzione legislativa, un Parlamento restituito alla sua funzione di varare leggi adeguatamente discusse e meditate e non costretto ad inseguire la quotidianità dell’azione di governo, solo così miglioreremo una Costituzione nata in un’epoca storica che imponeva altre priorità.
La Costituzione del 1948 nasce nel trauma della Seconda Guerra Mondiale e con il fantasma del Fascismo che aleggiava ancora nell’aria, disegna quindi delle istituzioni con il preciso intento di impedire che ciascun organo abbia troppo potere o possa decidere qualcosa senza l’approvazione di una moltitudine di soggetti. La volontà di evitare che possa sorgere una nuova dittatura fa così nascere una repubblica condannata all’immobilismo, al compromesso necessario, a negoziazioni permanenti. La sinistra difende ad oltranza, e per partito preso, questa costituzione perché la considera cosa sua, figlia della Resistenza, come se questo ne garantisse la perfezione e se qualunque cambiamento non potesse essere che peggiorativo. Invece va cambiata, per migliorarla, vi sono addirittura parti, ad esempio l’articolo 39, non attuate.
Per fare un paese migliore dobbiamo fare tante battaglie, una di questa, da non dimenticare è quella sulla Costituzione.

martedì 17 aprile 2007

VICTOR HANSON MI HA COPIATO!!!

Plagio? No, se sostenessi una tesi del genere l'autostima sconfinerebbe nella megalomania.
Purtroppo non credo che il grande Victor Hanson frequenti il mio blog e comunque non credo che conosca l'italiano. Nel suo articolo del 16 aprile,"It's the oil, stupid!" http://www.victorhanson.com/articles/hanson041607.html
Hanson affronta i legami tra petrolio e politica estera americana ricalcando, nella sostanza, alcune tesi che ho proposto nel mio post del 1 aprile.
Inutile dire che la cosa mi fa piacere essendo un estimatore dello studioso, di cui ho letto con interesse il libro "L'arte occidentale della guerra".

venerdì 13 aprile 2007

La società multiculturale del futuro

Da anni si sente ripetere ossessivamente che ci dobbiamo preparare, ci dobbiamo abituare, ci dobbiamo felicitare perché vivremo in una società multiculturale. Si sottintende che sia una cosa positiva e che volersi opporre a questo ineluttabile cambiamento, o giudicarlo negativamente, è indice di razzismo, di ignoranza, significa essere retrogradi e provinciali.
Le cose non stanno così, intanto questo cambiamento non è ineluttabile, in secondo luogo non è frutto di una scelta democratica consapevole, in quanto nessuno ha chiesto ai cittadini italiani di scegliere in proposito, né viene dato modo di riflettere sulle conseguenze.
La mia critica riguarda il concetto di società multiculturale laddove si intende una società in cui non si distingue più un tratto comune, ma dove i flussi immigratori hanno creato tante enclave culturali, linguistiche, religiose, dove è possibile riconoscere i caratteri distintivi dei paesi d’origine.
Una società quindi dove, sostanzialmente, il substrato italiano non è che uno dei modi di vivere tra i tanti. Questo concetto implica quindi un forte ridimensionamento numerico della nazionalità ospitante a favore di quelle immigrate. Tutto ciò è innanzitutto irresponsabile perché sottovaluta in modo sconcertante i pericoli di destabilizzazione che un processo del genere comporta. Non si può presentare la società multiculturale come una parata carnevalesca dove tutti si incontrano e vanno felici a braccetto a fare baldoria; la convivenza di culture diverse su uno stesso territorio è sempre stata complicata, a prescindere dalla buona volontà e dalle intenzioni delle parti.
La democrazia è il modo storicamente peggiore per governare una situazione del genere, sia perché si finisce per votare partiti su base etnica, sia perché alcune minoranze possono non riconoscere alla maggioranza il diritto di legiferare su tutti.
Anche in una democrazia molto omogenea, con valori e stili di vita condivisi, c’è il rischio che la maggioranza voglia omologare tutti, attraverso l’approvazione di leggi, a determinati comportamenti, creando tensioni con la minoranza di cittadini non consenzienti; questo rischio in una società multiculturale si presenta ogni momento. Faccio un esempio per chiarire il concetto: all’interno dell’Impero Ottomano, monarchia assoluta con sudditi privi di diritti politici, vivevano numerosissime etnie e, non contando il numero, nessuna poteva imporre leggi sulle altre; solo il potere politico di Istambul poteva decidere di voler omologare tutti i propri sudditi, ma per non provocare sommosse di solito evitava forzature. Quando l’Impero è crollato e sono nati Stati, più o meno nazionali, con una certa crescente influenza delle masse nella vita politica, sono nati anche i problemi relativi; nella stessa Turchia la presenza di greci, arabi, ebrei, curdi e armeni ha innescato scontri e tragedie immani.
La pressione immigratoria verso l’Europa è fortissima, ma non possiamo subirla senza cercare di governarla perché finirebbe per travolgerci. L’Italia, come ogni paese, ha il diritto di scegliere chi, come e quanti possono venire a stabilirsi entro i suoi confini. Il rispetto umano per la persona, da qualunque paese provenga, dei suoi diritti, della sua dignità, non è in discussione e non è pertinente con questo problema. Il problema è essenzialmente e semplicemente numerico. Comunità di milioni di individui non sono gestibili e se decidono di vivere contro le leggi del nostro paese non c’è modo di intervenire senza creare scenari di vera guerriglia urbana.
Vorrei che si capisse in tempo la differenza tra passeggiare in una città italiana ed entrare a mangiare in un ristorante arabo e passeggiare in una città che era italiana ma dove ora c’è un intero quartiere dove si applica la sharia a chiunque vi risiede.
Chiudo con l’immancabile polemica verso il mondo dei comici, conduttori, cantanti, registi, scrittori, opinionisti di sinistra paladini del political correct: quante omelie sulla triste sorte dei buoni pellerossa nordamericani e degli indios dell’amazzonia, sommersi dai bianchi malvagi e corrotti e ridotti a minoranza nella loro stessa terra, ecco mostrate un po’ di coerenza, non aspettate che gli Italiani facciano la stessa fine, perorate la giusta causa dei popoli autoctoni, dateci almeno gli stessi diritti degli amerindi. Ma forse le altre migrazioni, per costoro, sono tutte buone, l’importante è che gli yankee vadano a casa, per gli altri invece porte aperte, avanti c’è posto. Finchè ce n’è.

lunedì 9 aprile 2007

Omero nell'Egeo, Omero nel Baltico

Non c’è dubbio che la ricostruzione storica degli avvenimenti compresi nel periodo tra il XVI ed il XII A.C. ci permette di comprendere il mondo egeo a cui gli aedi greci dei secoli successivi facevano riferimento declamando i versi dell’Iliade.
Ma il fatto di richiamare esplicitamente le imprese degli Achei e delle guerre che questo popolo portò oltremare in quel periodo non esclude a priori le argomentazioni proposte da Felice Vinci nel libro “Omero nel Baltico”.
Non entro nel merito della fondatezza o meno della teoria del Vinci, perché la sua veridicità non dipende dalle vicende storiche, certamente corrette e documentate narrate nel libro di Roli.
L’eventuale origine nordica dei Micenei risale ad un’epoca precedente al loro arrivo in Grecia, in particolare, stando alle attuali conoscenze climatologiche, il periodo più caldo e quindi più adatto alla vita nelle regioni del nord Europa si colloca nel IV millennio A.C.
Si tratta quindi di capire se, per narrare le vicende dei Micenei nell’Egeo, i poeti greci hanno usato forme poetiche, miti, leggende, nomi ereditati da una memoria più antica e nei quali rimane traccia di eventi precedenti.
La toponomastica in particolare merita attenzione perché storicamente è sempre accaduto che spostandosi i popoli si portano dietro i nomi dei luoghi nei quali avevano vissuto.
Le città che i Greci fondarono in Italia, ad esempio, ricalcano toponimi della madrepatria, gli Olandesi hanno fondato ovviamente una Nuova Amsterdam, i Fenici una Nuova Cartagine; ovviamente il fatto di trovare una Montreal vicino a Petra non significa che la Guerra dei Cent’anni si svolse in Medio Oriente ma ci induce a cercarne i fondatori in Francia.
Le nozioni geografiche, di mitologia comparata e linguistiche che si ricavano dall’Iliade e che vengono presentate come indizi circa l’origine nordica degli Achei devono a mio avviso certamente essere provate ma meritano di essere considerate e approfondite.
Questo problema si colloca all’interno di quello più complesso circa l’origine degli Indoeuropei o, meglio ancora, sulle rotte, terrestri e marittime, delle loro migrazioni, separazioni ed intrecci.
L’invasione stessa della Creta minoica da parte degli Achei ha presentato notevoli difficoltà di comprenderne i tempi e i modi; solo comparando numerosi scavi effettuati in un arco temporale piuttosto lungo si è riusciti ad elaborare una successione di eventi ben riscontrati.

domenica 1 aprile 2007

Petrolio e guerra

Mi permetto di sottoporre a chi legge alcune considerazioni circa un recente articolo di Greg Palast su petrolio e guerra in Iraq, rilanciato in Italia da varie fonti, alcune neutrali, altre attivamente impegnate nella campagna di denigrazione dell’Occidente.
All’inizio della campagna irachena molti scrissero che gli americani andavano a prendersi il petrolio, oggi a qualche anno di distanza, constatiamo che la produzione di greggio non aumenta e, presumibilmente, fino a quando la sicurezza non sarà ristabilita gli investimenti infrastrutturali necessari andranno a rilento. Ma nella divisione del mondo tra buoni e cattivi agli americani spetta sempre quest’ultima parte, ed allora ecco che il fine analista riscrive il complotto: la guerra è servita per far aumentare il prezzo del greggio e far così guadagnare molti soldi alle figlie delle Sette Sorelle.
L’analisi parte subito con una palese contraddizione: all’inizio si afferma che c’era la chiara volontà degli americani di preservare i pozzi petroliferi, poco dopo si afferma che l’invasione vuole impedire agli iracheni di estrarre più petrolio e, come conseguenza di questa minore offerta, far aumentare il prezzo dello stesso. E’ evidente che, se lo scopo è quello di impedire l’estrazione, era molto più comodo bombardare i pozzi dal cielo, evitando così le critiche sulle vittime civili, piuttosto che procedere, come è stato fatto, con l’invasione di terra che, oltre tutto, provoca numerose perdite tra i soldati.
Tutto il ragionamento è poi inficiato da una considerazione generale: il prezzo del greggio è stato spinto verso l’alto dalla crescente domanda proveniente dall’Asia, in particolare dalla Cina, fare una guerra apposta per alzarlo è del tutto inutile; il mondo consuma 86 milioni di barili al giorno, se non ci fosse questa richiesta così sostenuta non basterebbe certo il taglio di due milioni di greggio iracheno a far lievitare il prezzo. La controprova è stato il periodo alla fine degli anni ’90 quando la crisi delle Tigri Asiatiche fece crollare il prezzo del petrolio, nessun taglio approvato dall’OPEC riuscì a far risalire le quotazioni fino al momento in cui l’economia mondiale non riprese a crescere.
L’autore ricollega la politica pacifista clintoniana al basso prezzo del petrolio, ma è una affermazione sorprendente, intanto Clinton ordinò diversi interventi militari e poi non risulta che l’Amministrazione Clinton si adoperasse per mantenere basso il prezzo, anzi destava preoccupazione il fatto che quel livello di prezzi stesse portando la Russia verso la bancarotta, con tutte le destabilizzanti conseguenze che ne potevano derivare.
L’aumento del prezzo, essendo espresso in dollari, è poi dovuto ovviamente anche alla debolezza attuale della valuta americana, in ogni caso faccio notare che la conseguenza di tutto ciò non è stata solo che le compagnie petrolifere hanno fatto grandi profitti in questi anni, ma anche alcuni governi hanno avuto enormi risorse da gestire, ad esempio Iran e Venezuela. Sarà contento Bush di questo? Saranno soddisfatti Chavez e Ahmadinejad della politica mediorientale di Bush? Forse questo ci verrà spiegato nei prossimi film di Michael Moore, ci verrà spiegato anche che l’intenzione di Bush di ampliare le trivellazioni in Alaska per aumentare la produzione americana è un astuto bluff, stesso discorso per l’accordo in Brasile sul biodiesel….
Una cosa è certa: più il prezzo aumenta, più diventa conveniente cercare alternative al petrolio, speriamo che i ricercatori facciano presto, così respireremo aria buona e non leggeremo più dietrologie petrolifere banali sui guerrafondai bianchi cattivi.